dal COLOPHON del libro SANTI, MADONNE E SACRESTIE di Pio Peruzzini

 

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SANTI, MADONNE E SACRESTIE presentazione del libro fotografico di Pio Peruzzini (con un’ampia rassegna di foto pisciottane)

 

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25 APRILE, FESTA DELLA LIBERAZIONE di BiagioFioretti

Il documento che Vi sottopongo è una lettera , datata  9 gennaio 1937, anno XV dell’era fascista, come si usava allora pomposamente dire.

Una lettera con la quale, la sezione FASCI DI COMBATTIMENTO DI PISCIOTTA intimava a Francesco Caputo fu Domenico, di “versare la somma di 18 lire per tessera e contributo…”.

Leggete i toni minacciosi e senza appello con cui si avverte o si obbliga. Respiratene il clima di sopraffazione che trasuda e che tutta L’Italia respirava e subiva in quegli anni. E immaginate così sia stato il giorno della Liberazione, per un intero popolo privato della libertà da una dittatura ignominiosa.

Liberazione avvenuta grazie agli alleati e ai partigiani. Partigiani, caro Presidente della Provincia di Salerno, Edmondo Ciriello. Donne e uomini che per quella libertà, di cui perfino Ella si effige nel nome del suo partito, si immolarono. Caddero e combatterono dalla parte giusta, contro i nazi-fascisti.

Forse Lei, egregio Presidente, dovrebbe almeno ripassare la storia, nei fatti e nelle conclusioni oggettive.

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SERATA CARBONARA di BiagioFioretti

  Aniello Fiorillo è uomo di coraggio. E’ coraggioso non perché ammazza draghi ogni mattina o combatte orchi e mostri marini. Lo è perché rende le sue idee patrimonio condivisibile e le realizza con un senso di naturalità che mette sconcerto e allieta l’anima.

Ho l’onore di essergli amico e, in virtù di tale privilegio, attingo a piene mani al suo bauglio di ricordi e saperi antichi. E pure, alle sue sfrontatezze.

Solo PiccoloFiore poteva inventarsi una serata a tema, del genere “…dedicata a Bacco, con lettura di versi inediti e degustazione di pregiati vini pisciottani” .

Pisciotta e il Cilento intero sono terra di negazione. Si è oramai smarrito l’arte del vinificare, di produrre olio e far turismo. Lo dico senza spirito polemico, ma solo come mera constatazione. D’altronde un simile smarrimento è cosa quasi inevitabile, quando un popolo è dissanguato dalla diaspora dei figli e potare, zappare e produrre vino od olio è lasciato alla passione di qualche pensionato.

Ciò non di meno e per quel coraggio di cui prima, ieri sera, dopo la messa vespertina, pochi amici, tutti poco più che essenziali, in un vecchio palazzo dismesso e ripulito per l’occasione, hanno inscenato una riunione senza pari.

Tra un assaggio con votazione palese e letture di prose e versi, a lume di candela propriamente vero, si è compiuto l’artifizio silente e meritato, di rendere giustizia a chi se l’è guadagnata.

I vini, tutti di Pietralata tranne uno, erano e sono di produzione e consumo familiare. Uomini che per passione e diletto, si industriano a ricavare vino, per come si sa o si tramanda ancora. 

Nove vini, ne mancava uno. Solo e ancora uno il vincitore: Filippo Puglia, avvocato per professione, viticoltore per consuetudine familiare.

La saletta era piena come un uovo di ramarro e al centro del soffitto, travato di castagno, imperava un lampadario con ceri veri appesi.

Ho ritrovato la goliardia di amici, rubicondi e allegri e qualche viso intenso creduto perso.

Serata magica per l’ardire e i convenuti. Quasi una confraternita per il gusto di sapersi tali.

L’appuntamento prossimo? Il tema, mi anticipa PiccoloFiore, è ancor più per pochi eletti: poesia erotica in lingua e versi.

Dopo mezzanotte, invero e al più presto.

 

BiagioFioretti (diciannoveaprileduemiladieci)

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‘O VINE di BiagioFioretti

Letta ieri sera a SPIRITO DI…VINO, PANE E POESIA.

‘O VINE

 

A me nume piace ‘o vine

che ce pozze fà,

me fa senze, me fa ruttà;

sul’a ddore me fa vummecà.

 

‘Ncopp’altare io preferisco ‘o ppane,

comme ostia, senza sanghe ‘e Criste;

che vaggià dì so limitate

sule si o veghe me saglie a sarze ‘ncape.

 

Bive! che è robba genuine

a fatte Vito a Petralata,

vire ch’è primma sprimiture

acine acine scamazzate sule.

 

Uè Aniè!  a me ‘o vine nume piace

tegn’e vestite, me puzze assaje,

‘o veghe chelle ca cumbine

nu surze mo’, nate comme digestive

mariteme sta sembe tutte ‘mbriache.

 

Me vatte, mall’ucche ncape

pe colpa e chella bibbeta nustrane,

se ne porte a liette nu fiasche sane.

 

Se pozze appiccià tutta Petralata,

ch’e Runge e pure Cilifise sane,

famme nu mirachele Pataterne mije:

falle scapezzà vine e vuttare.

 

BiagioFioretti (diciasetteaprileduemiladiceci)

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VUTTARO di BiagioFioretti

Letto ieri sera a: SPIRITO DI..VINO, PANE E POESIA.

VUTTARO

  Il vuttaro era buio e scavato di fresco. Una lampada ad olio rischiarava le forme panciute e tunne dei tini. Le scarpe affossavano nel terreno smosso d’umido e l’aria sapeva di muffe e raspi di tannino.

         Lellè ramme na mano…’ngignamme quella in fondo.

         Ronn’Aniè chist’anno ‘o vine si presenta bene. Non ha mai piovuto e gli acini erano petre ‘e zucchero.

Fuori nel vicolo zichi e zorie sciamavano in schiamazzi e rincorse a perdifiato. Le pareti della cantina in roccia a strati scuri, attutivano il fracasso. Quel fioco, quell’odore di loculo e la camicia inzuppata di fatica davano un che di carbonaro alla scena madre.

Il silenzio d’improvviso si fece regno. La fiamma del lume tremolò e un colpo netto e preciso, infilzò la tavola del tino.

         Muovete, pigli’o bicchiere!

         Cadd’ore ronn’Aniè. Chist’anne ‘o vine vuoste serve l’altare. Russe serio sarà ‘o sanghe e Criste, auanne.

Si sedettero colle spalle al fresco della sera. Ognuno col bicchiere in mano, colmo per metà. 

Lellè tracannò tutto d’un fiato. Aniello ‘o Pustiero taliò controluce tutto quel rosso vivo. Rise, senza muovere un muscolo del viso affilato e serio. Poggiò le labbra sul limite in vetro e aspettò di accogliere quel ben di Dio atteso.

Lo sorbì, ne tenne in bocca il fresco. Poi quando le nari furono satolle di corbezzoli e fragoline di bosco, di ginestre ed erica selvatica, deglutì. Il pomo d’Adamo salì e scese lungo la gola e la lingua schioccò come una frustata piena.

         Uhm! – si limitò a dire il postino e mast ‘e festa.

         Buono! – esclamò l’altro – ronn’Aniè chist’anne non vi vedete a nessuno. Marcello ‘u Tardìo si mangerà a rezza ro core. Michelino Viglione s’addà stà. Chiste è vine e Petralata, propètamente.

         Iamme nu fa storie. Mbrattàmme na dammìggianella e tu pigliati nu fiasco e fattelo bastà ruje iuorne almeno. Crai è S. Sufia, muoviti che Giusuppina sta già intonato ‘a nuvena.

 

BiagioFioretti (diciasetteaprileduemiladieci)

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FRAMMENTI DIRCANTESCHI di BiagioFioretti

Mario Tancredi è uomo d’altri tempi. Lo dico con tenerezza e ammirazione, proprio di chi fa e intende un complimento. Lo è non per età, ma per una vita intera spesa altrove. Vivere oltre il golfo di Pisciotta, quello che protende il seno tra il Frontone e Capo Telegrafo, e vivere senza mai dimenticare fossi e radici, pietre e mare, affetti e movenze di questi lidi e viverla quella vita portando in giro un DNA che invoglia a fare al meglio il proprio dovere, è solo questo che fa di Mario un uomo d’altri tempi.

Vivere allora a Roma o a Canicattì non ha importanza. Importa sentire come tutta il prima di quella vita è come congelato, fissato a nostalgia per sempre. Sentiero unico per ritrovarsi e sapersi tale.

FRAMMENTI DIRCANTESCHI è proprio questo. Voler svuotare il proprio sacco di ricordi e leggerne assieme ai nipoti, all’amico, alla figlia che ne traduce i colori e l’essenza.

Ho conosciuto Mario nel comune terreno informatico del portale di pisciotta-online. Organizzavo in quell’aprile del 2006 TUVOLO DI POESIE, letture di poesie ed altro sui gradini che menano ‘ncap’o Tulo. Mario generosamente mi spedì un suo componimento che lessi in quella serata magica.

L’ho sempre letto sul Forum, a firma DIRCANTE, anagramma del suo cognome. Spesso continuo a farlo, seppure oggi quel luogo, sia divenuto deserto arido. I suoi versi hanno sempre dato leggerezza e sapidità a un confronto troppo spesso scaduto a scontro barbarico. La sua eleganza mette quiete e saggezza a tanto livore ostentato e prepotentemente.

Oggi che ho tra le mani il suo libretto candido, mi sento come chi sapeva già di tanto accadimento, naturale ed atteso come parto ben voluto.

Due cose mi hanno sorpreso e voglio qui sottolineare.

Il Dircante che scrive nella lingua natia. Lo preferisco davvero e tanto. Nella parlata che impariamo succhiando al seno materno, Mario è vero e immediato, senza nessuna intromissione che la “lingua dello straniero” impone a chi pensa e sogna in pisciottano.

Amo le cadenze dei suoni che ritrovo nei caratteri di stampa. E’ come se la loro traduzione desse la sola chiave di lettura a tanti ricordi d’uomini e territori. Una soluzione che semplicemente dice tutto della sua dicotomia, del dilaniarsi tra le due vite, osmosi necessaria e mai latente.

E poi la sorpresa inaspettata. Quasi una poesia nella poesia di quei frammenti. Amo senza ritegno i bozzetti, gli acquerelli della figlia Paola Tancredi, che come molliche d’un Pollicino segnano e lasciano traccia.

E’ come se in quelle delicate pennellate d’acqua a colori tenui, il Dircante al femminile continuasse a raccontare storie e fiabe. Direttamente e senza infingimenti al cuore e all’anima di chi sa sentire tanto carme.

Paola e Mario sono assieme questo libricino.

Lume e sostanza per serate affabulanti al fuoco vivo dell’emozione.

BiagioFioretti (quindiciaprileduemiladieci)

 

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FRACETANE di BiagioFioretti

Il borgodellefavole, lo dico subito, non è paese di fracetane. Non lo è più, per quanto questo rettile affabile e utilissimo, è divenuto di per sé, raro da scorgere e scovare.

Seppure ha mura antiche e pietre che raccontano storie e novelle e favole a chi ha cuore per sentirle, il borgo ha smarrito il suo corallo scaglioso di vezzo e lingua.

Ha rimosso fracetane e barbagianni. Ha lasciato crescere ortiche e rovi su macerie di frane, nei parcheggi recintati, lungo i fossi  delle strade rovinate dall’incuria e dalla malversazione.

Dove potevi scorgere gechi intenti al loro moscerino pasto, alla luce tenue e tremolante di lampare al Bar del Capitano, oggi è la serpe e l’aspide che si fa seno per ghermire.

Il timido e il mite arretra il passo. Lo fa per natura e per pudore, perché non ha armi utili per portare offesa. Restano gli avidi e gli empi, chi sogna ricchezze mascherate da professioni, come se lavorando onestamente ci si potesse trasformare in falchi rapaci.

Le mura hanno perso poesia e ricordi. Sono come d’improvviso, ridiventate quel che sono, agli occhi dello stolto. Scalcinati resti di una civiltà altra, crepe polverulenti  di quel che resta dopo il saccheggio di anime, prima di qualunque altra cosa.

Le fracetane sono altrove, come le rondini che stentano a tornare.

Sanno di sapersi fossili fuori luogo. Spaventosi orchi per bambini e adulti che hanno altro a cui pensare.

BiagioFioretti (trediciaprileduemiladieci)

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CRECCHIE di BiagioFioretti

  Il mercoledì si sa, è giorno speciale al borgodellefavole. Non perché Nellina cucina lagane e ceci e neppure perché è giornata di sole terso, che invoglia ad uscire di casa.

No, il mercoledì è tutto speciale. Almeno questo lo è.

E’ singolare e diverso, nello slargo che unisce o separa, a secondo dell’umore di ciascuno e di tutti, nella chiazza dal nome diPinto.

Qui, nei mercoledì di sole, è il mercatino che assolve il particolare. Smuove e segna e recita poesie al cielo di foglie timide di tiglio.

Un mercato come tanti, niente di che. Eppure, dopo il freddo di pioggia incessante, quel niente di che appare tanto di tutto.

Il paese si fa crecchia e rapina il primo sole di terso. Discreto e vigliacco il sole d’aprile, nell’ottava di Pasqua.

Dà sentori di mare e di prossima estate se lo prendi di viso, seduti fuori da Anna Agorà o Mario & Mario, Germania o Tregufi.

 

Tira fuori la gente, il mercato in piazza. Visi punzonati di freddo passato, nei vicoli alla Serra o sotto al Castello. Si discute, si sciorinano rosari di saluti e sorrisi. Non si compra granché, quasi nulla, ma è bello ritrovar bancarelle e venditori, con il loro tornare di sempre, nonostante il magro di affari.

Pisciotta è promessa questo mercoledì in Albis. Promette e lusinga e ti invoglia a crederle nelle mille moine.

Nonostante noi altri, miserrime e meschine crecchie di sempre.

 

BiagioFioretti (setteaprileduemiladieci)

 

 

 

 

 

 

 

 

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CRIMINI di BiagioFioretti

Sono giorni che mi porto dentro questo affanno. Come una pena che non trova soluzione o remissione.

Provo a ragionare, laddove l’istinto di padre e di uomo non sente nessuna ragione, segue solo il dettato del sangue, del dente per dente.

Ci provo, devo farlo per dare un senso allo sgomento. Per ritrovare quei termini di paragone, di identità, di religiosità e pure di laicità che sono azzerati, sradicati, buttati alle ortiche.

L’orrore quando si fa largo nell’animo, con onde larghe come i surges del fungo atomico, crea deserto di disperazione, arsura riarsa, senza nessuna speranza. Il cervello per non impazzire, fa l’unica cosa che lo fa sentire ancora vivo: si arma di vendetta e invoca solo sangue. Nessun perdono, neppure solo pensato, figurarsi se offerto a piene mani. Quantunque e nonostante sia la cifra più eclatante, il comandamento più amato e cristologico dell’essere credente, cristiano, cattolico e per questo riconoscente  e sottomesso, per fede e vocazione, al Vicario di Cristo sulla terra.

Posso solo immaginare o tentare in tanto almeno, cosa possa provare un padre il cui figlio sia stato abusato da un uomo consacrato, prete o monaco, suora o vestale, vescovo o alto prelato. Ci sono drammi e sofferenze che travalicano la fantasia di chiunque si cimenti anche solo a supporre.

Provo, ci provo.

L’abuso sessuale su un minore è uno dei crimini più efferati che un uomo o una donna possa commettere. Ogni violenza lo è, sia fisica che psicologica, ognuna con le sue conseguenze materiali, mentali, di anima. Ma la violenza a scopo sessuale è ancora e molto più. La violenza a scopo sessuale su un minore è l’aberrazione più nefanda e scellerata che si possa concepire. E perché viola l’intimità più sacrale di un essere umano e perché approfitta di un innocente in quanto tale.

Chi commette tale infamia si pone fuori dal concesso umano. E, Dio mi perdoni, non credo possa essere neppure annoverato tra le bestie. Gli animali seguono solo l’istinto riproduttivo e se l’individuo della stessa specie non è ancora maturo per tale atto, non serve ancora, non viene neppure annusato.

Ci sarebbe molto da chiosare circa i costumi e le inclinazione della società umana nel corso dei secoli. Se la pratica di un tale abuso fosse tacitamente codificata per esempio, nella civiltà greca o se, ripudiata una simile ignominia come costumanza tra docente e discente, attenga oggi e sempre a malattia o devianza, curabile come una qualunque altra patologia psichica.

Ciò che annichilisce è chi, in questi anni e con la complicità di gerarchie ecclesiastiche, ha commesso tali vigliaccherie. E’ il luogo, è la mano di chi se macchiato di tali sopraffazioni. Una chiesa, una sacrestia, un collegio o una scuola cattolica. Un prete, un confessore, un frate, una suora o una novizia perfino, se si ricorda il rinvio a giudizio nell’ultimo caso di cronaca a Vallo della Lucania.

Dà ancora più dolore scoprire tanta codardia proprio nell’anno liturgico dedicato al sacerdozio, alla sua vocazione e missione.

Saperli i nostri figli, in mani sicure, perché mosse per scelta e convinzione, dall’Evangelo di Cristo, dalle sue parole: «Lasciate che i bambini vengano a me, e non glielo vietate, perché il regno di Dio è per chi assomiglia a loro.” (Lc, 18-16; Mt, 19-14; Mc, 10-14), saperli al sicuro e scoprire con sgomento che proprio lì, tra coloro che dovrebbero professare altro, con la vita, coll’esempio, venivano sottoposti alla più bieca delle barbarie e che quando un genitore, una famiglia trovava il coraggio di denunciare, veniva azzittita, presa per pazza o, nella migliore delle ipotesi, il crimine era occultato, insabbiato, messo a tacere da vescovi e da alti prelati, tutto questo lacera, assassina, toglie ogni speranza ad ogni credo, ogni fede, ogni perdono.

La lettera pastorale alla Chiesa irlandese del Santo Padre, Benedetto XVI, scuote ancora di più. E’ un primo, seppure timido, atto di coraggio che il Papa fa, condannando senza appello il crimine in sé, come peccato che urla contro il Vangelo. Toglie veli e protezione finalmente, all’usanza bieca di nascondere sotto il tappeto, nel nome di una Chiesa da proteggere sempre.

Ma non basta. Non è sufficiente.

Il cancro ha metastasi diffuse in tutto il corpo della chiesa universale, dalle Americhe del nord, all’Italia, all’Irlanda, all’Australia e ultimamente, perfino in Germania. Sembra quasi pratica e costumanza diffusa e accettata come tale. Non basta neppure capire se tutto questo marcio è dovuto al voto di celibato della chiesa cattolica per i suoi consacrati oppure se i criteri, per discernere le vocazioni alla missione di sacerdozio, siano insufficienti o manchevoli.

La lettera pastorale del Pontefice è solo l’inizio. Ma la Chiesa tutta non può fermarsi a quel primo passo. Occorre che ci sia una rivoluzione tra le gerarchie ecclesiali; un qualcosa di equivalente ad un Concilio per le questioni di fede, di dottrina. Un segnale forte che curi, educhi, ponga fine a tanto liberticidio, sciaguratezza, criminalità.

Ne va della moralità e santità della Chiesa cattolica. Ed è l’unico modo per tentare di restituire credibilità ai ministri della fede tutti e serenità a noi credenti e, per quanto possibile, alle vittime di queste efferatezze.

Lo Spirito Santo non mancherà d’illuminare sempre ed ancora il Corpo Santo del Cristo Signore. Ma diamogli , noi tutti e il Papa in testa, un aiuto concreto. Almeno un segno di pentimento e di ravvedimento.

 

BiagioFioretti (ventiquattromarzoduemiladieci)

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